-Città Inquinata: Quanto è Lontana Taranto?

Nel provare a raccontare la catastrofe ambientale di Taranto, le cui proporzioni sfidano l’immaginazione, ci si trova molto spesso a parlare di fin dove arriva, questa catastrofe. Questo fenomeno si ripete a vari livelli: a Taranto sembra quasi che si stia male solo al quartiere Tamburi, in Puglia pare che si muoia solo a Taranto, e in Italia gira voce che i problemi ambientali siano una cosa del Sud. Una volta ci si chiedeva se un albero che cade in una foresta faccia rumore a seconda del fatto che ci sia qualcuno ad ascoltarlo oppure no, e oggi io mi chiedo: se un’intera città viene avvelenata nel silenzio e nell’indifferenza più totale, è una catastrofe oppure no? E se non si trattasse solo di una città? E se stessimo venendo avvelenati anche noi, ma senza saperlo e senza esserne coscienti, siamo vittime di questa catastrofe oppure no?
 
Da qualche mese ho deciso di provare a raccontare l’inquinamento a Taranto, e uno dei modi mi è stato offerto per farlo è stato di pubblicare una serie di articoli su questo giornale, Largo Bellavista. Personalmente ritengo che parlarne su giornali locali come questo sia forse anche più utile che sui media nazionali, poiché anche se una catastrofe di queste dimensioni necessita una soluzione a livello nazionale, lo stimolo per raggiungere questa soluzione può forse emergere da una presa di coscienza collettiva di quelli che a questa catastrofe sono più vicini. Ebbene, dopo il secondo articolo sono venuto a sapere che in redazione è stata discussa la necessità o meno di parlare di Taranto su una pubblicazione incentrata sulla Valle d’Itria. Senza voler in alcun modo mettere in discussione la facoltà della redazione di decidere di cosa parlare o meno su Largo Bellavista, la mia domanda è questa: ma la Valle d’Itria dove sta, secondo voi?
 
La Valle d’Itria si trova all’incirca a trenta chilometri dalla zona industriale di Taranto e forse sarebbe utile ripetere cosa c’è, a trenta chilometri da noi: secondo i dati dell’ISPRA, l’ILVA da sola emette il 92% della diossina emessa in Italia, il 78% del piombo, il 57% del mercurio e l’80% del monossido di carbonio. Nonostante i modelli per capire dove finisce ciò che esce da una ciminiera siano ancora rudimentali, al contrario per esempio di quelli usati per calcolare il livello di consenso di cui gode il nostro primo ministro, la situazione è preoccupante. La regione Puglia ha vietato il pascolo all’interno di un raggio di 20 km dall’ILVA e le analisi dell’ARPA fatte alla Masseria Carmine, a nord della zona industriale, ci dicono che quando il vento soffia da sud le concentrazioni di diossina e PCB aumentano di tre volte, quelle di benzo(a)pirene di nove volte e quelle di IPA di ben ventiquattro volte. E nel caso che non lo sappiate, stiamo parlando di veleni.
 
Non so se quei trenta chilometri siano sufficienti a proteggerci dai veleni di Taranto, mentre mi sembra siano stati sufficienti a farcene dimenticare e a farci abbandonare al loro destino migliaia di Pugliesi come noi la cui unica colpa è di essere nati nella lontana Taranto, invece che nella ridente Valle d’Itria. Questa indifferenza, aggravata dal fatto che centinaia di nostri compaesani lavorano e hanno lavorato laggiù, potrebbe essere un grave errore. Forse trenta chilometri non sono poi così tanti, e forse sarebbe ora di ripensare a dov’è la Valle d’Itria. Uno spunto al proposito ci viene da un immagine del sistema di monitoraggio della qualità dell’aria lamiaaria.it, che con i suoi colori gialli e verdi ci dice che forse la Valle d’Itria è più vicina a Taranto di quanto pensiamo.